Posts Tagged ‘brad furman’

L’Incompetente insiste

25 febbraio 2014

Un periodo molto strano: un forte desiderio di ascoltare roba nuova ma allo stesso tempo non c’è nulla che sia così interessante da meritarsi una recensione.

E così ancora una volta regalo il mio spazio a Mr. Incompetente con le sue cine-recensioni… un terzetto di film usciti negli ultimi anni e che per un motivo o per l’altro meritano almeno una visione!

 

LIFE OF PI – VITA DI PI (2012)

di Ang Lee con Suraj Sharma, Irrfan Khan, Adil Hussain, Tabu, Rafe Spall

Quando Ang Lee ha una solida storia da raccontare, sa come farlo. E lo dimostra con questo film, assimilabile a una favola moderna, che lui gestisce con maestria e con quel tocco fatato che qualche tempo addietro lo rese famoso.
Per mettere in scena questo contesto fiabesco, Lee utilizza lo strumento che più di ogni altro si adatta al genere: l’animazione. Pur essendo un film  in live action, infatti, il regista pesca a piene mani dalla grafica computerizzata e offre la sua versione di Disney sotto acido per rendere al meglio il naufragio di cui è protagonista Pi. E, al di la di qualche leggero inciampo (vedi la scena dell’orango sul casco di banane), il gioco gli riesce piuttosto bene, donando atmosfere rarefatte a un impianto scenico che, grazie al green screen, diventa assolutamente di prim’ordine. L’infinito oceano dove si svolge il corpo principale della storia, con i suoi pericoli, la sua notte peina di stelle e le sue devastanti tempeste, diventa una location ideale per la narrazione.
Narrazione che ruota soprattutto sul rapporto tra il protagonista e la tigre, belva feroce che condivide, suo malgrado, il destino del naufrago. Il rapporto tra i due esseri viventi diventa il leit motive di tutta la vicenda, riuscendo a non annoiare, nonostante per un lungo periodo siano solo loro due i personaggi sullo schermo. La perfetta gestione dei tempi e l’incredibile immaginario visivo del regista offrono alla storia la solidità necessaria per arrivare alla conclusione.
Eppure il film non mi ha colpito per questo. E nemmeno per la millantata ricerca spirituale tendente al divino che il regista, forse esagerando un pò, ha tentato di far passare come autentico motivo dominante di tutto il lavoro.
Ang Lee si gioca la sua carta vincente proprio sul finale, dove con uno stratagemma che pare invertire, se non ribaltare, tutto ciò che si è visto fino a quel momento, decide di prendersi un rischio non da poco. Questa scelta particolare avrebbe potuto determinare la rovina di tutto il suo lavoro, asportandogli ogni sorta di magia.
Invece la sceneggiatura fa il suo lavoro e offre alla pellicola una dignità ancora superiore rispetto a quella che il film avrebbe avuto con una conclusione lineare. Scegliendo di portare a termine in questo modo la trama, infatti, gli autori omaggiano il loro protagonista elevando, nel contempo, la letteratura stessa, mettendo in risalto la capacità di quest’arte di rendere migliore la vita di chi ne sa cogliere l’essenza.

E così Ang Lee riesce a dare vita a quello che, secondo me (e solo tra quelli che ho visto), è il suo miglior lavoro. Un film che riesce ad intrattenere, a far divertire e a lasciare dietro di se un sapore buono.

Saluti

children-of-men

CHILDREN OF MEN (2006)

di Alfonso Cuarón con Clive Owen, Michael Caine, Chiwetel Ejiofor, Julianne Moore, Clare-Hope Ashitey

In un futuro molto prossimo, le femmine del genere umano diventano sterili provocando 18 anni di natalità zero.  L’umanità è in una situazione di totalle follia e nessun posto sembra sicuro, tranne l’isola felice di Londra, che poi è l’ambientazione di partenza di questa storia.
Cuaron mette in scena un futuro credibile in cui l’assenza di speranza in un avvenire che mai arriverà, è ben rappresentata dalle tensioni palpabili che si respirano. La stessa Londra, pur parzialmente vivibile, è scossa da attentati a cui gli abitanti sembrano aver fatto l’abitudine.
Da un punto di vista generale la struttura è ben congeniata e regge all’impatto visivo. La trama però soffre di una certa pesantezza, dovuta alla farcitura di stereotipi e retorica che sa di già visto e sentito. Anche i personaggi paiono poco ispirati e si fatica a entrare in empatia con loro.
Ma il regista, che pare essere consapevole di questo, dissemina la pellicola di momenti di rottura che si riprendono l’attenzione che in alcuni momenti pare svanire.
La sequenza dell’agguato nel bosco, per esempio, è un chiaro indicatore di questa tendenza. Solitamente non amo molto la camera a mano, utilizzata per nascondere difetti di sceneggiatura o di capacità registiche. Quando però la si affida a qualcuno che sa fare il suo lavoro i risultati si vedono. Pur riuscendo a trasmettere adrenalina e a portare lo spettatore dentro l’azione, infatti, non esce mai dai binari, mantenendo sempre ben chiaro ciò che accade sullo schermo e dando una dose di spettacolarità eccezionale a tutto il complesso. In una parola: cinema.
Questi momenti, come detto, sembrano essere messi da Cuaron per spezzare una narrazione poco fluida e poco originale. Quasi per far risedere sulla poltrona lo spettatore che rischia di annoiarsi e chiedergli ancora un pò di tempo. Non so se queste fossero state le reali intenzioni del regista, ma sicuramente dargli retta non è un’idea sbagliata.
L’ultima mezzora-tre quarti d’ora di film ripagano dell’attesa entrando nel novero dei momenti più belli di cinema che mi siano capitati di vedere di recente. Non che la storia prenda una piega inaspettata, anzi, si può dire che si capisce fin da subito come lo snodo narrativo si risolverà e persino le modalità secondo cui questo succederà.
Qua viene fuori la mano di un regista davvero capace di dar forma alla materia. L’ascesa finale, la crescita della storia, di nuovo la telecamera a mano, sono da bocca aperta. Per trenta minuti ci si incolla allo schermo, incapaci di pensare ad altro, trascinati dentro la storia senza possibilità di tregua. Persino il climax, un pò scontato come idea, riesce ad essere potente come uno schiaffo inaspettato.
Tutto ciò che prima sembrava così scontato e persino banale, si risolve in un modo violento e salvifico allo stesso tempo, grazie al grande impianto scenico di Cuaron e a un commento sonoro decisamente indovinato. Persino il finale, che a pensarci pare fin troppo sentimentale, dopo quest’orgia estatica diventa simbolico ed efficace come non mai.

Un film da vedere asolutamente. E una volta guardato la prima volta, da rivedere e rivedere. Sicuramente superare lo scoglio della parte inziale e centrale, in cui gli autori ci preparano la tavola, non è semplice. Ma una volta che si da a Cuaron un pò di fiducia, lui ripaga con gli interessi. Minchia se lo fa.

Un saluto

 

THE LINCOLN LAWYER (2011)

di Brad Furman con Matthew McConaughey, Marisa Tomei, Ryan Phillippe, William H. Macy

Legal thriller con qualche innesto noir, questo film ci racconta la storia di un avvocato penalista e senza scrupoli (McComecazzosichiama) alle prese con un cliente, giovane rampollo viziato di una famiglia facoltosa (Phillippe), accusato di un’aggressione di cui si professa innocente.
Film ben girato dal mestierante Furman, qui alle prese con una produzione hollywoodiana alla quale non è probabilmente abituato. Leggenda narra, infatti, che questo lavoro avrebbe dovuto essere affidato a Tommy Lee Jones, ma che, a causa di divergenze creative, sia finito nella mani del regista in questione.
A dire la verità, in qualche occasione Furman si lascia andare a qualche virtuosismo poco affine alla trama. Specialmente a un utilizzo un po spinto dello zoom e a qualche momento giratesta di troppo.
Sono comunque dettagli che alla fine risultano trascurabili, perchè tutta la pellicola poggia su due robuste colonne portanti.
Innanzitutto l’ottima fotografia, che senza particolari trovate è in grado di catapultarci nella calda e assolata Los Angeles, dandoci da sola il giusto posizionamento spazio temporale.
In secondo luogo il film beneficia di una sceneggiatura solida, che pur nell’intreccio a volte complesso, riesce a mantenere sempre ben chiaro l’andamento della trama. Poi c’è l’ottima gestione dei dialoghi. Sempre puliti, in poche battute hanno il pregio di dare una chiara definizione dei personaggi.
McChiè non è esattamente un campionario di espressioni, ma comunque risulta credibile nel suo ruolo da avvocato belloccio e spregiudicato. Phillipe, dal canto suo, ha già dimostrato di saper intepretare il classico viziatello un filo stronzo, anche perchè la sua faccia da sberle lo aiuta molto nel compito. Forse un pò sprecata Marisa Tomei, in un ruolo un poco marginale che ci priva di parte della sua bravura. Interessante comunque l’intreccio con il personaggio principale, da coppia scoppiata ma non troppo, che aggiunge un po di sapore al contesto.
Se questo lavoro ha un difetto vero è una certa sovrabbondanza di finali. Si è deciso di chiudere tutte le linee narrative in sequenza, cercando di sorpendere lo spettatore con continui colpi di scena racchiusi nello spazio conclusivo del film. Ma più che un festival dell’effetto sorpesa, a me questa scelta ha ricordato una ciotola piena di acqua gettata sul brodo, per dare l’impressione che durasse di più.

Non è una di quelle pellicole che mi farà strappare i peli dal petto e urlare ringraziamenti agli dei del cinema. E’ comunque un lavoro godibile, che intrattiene per il tempo che richiede la visone e poi se ne va come se non fosse mai esistito.

Un saluto